In vigore dal 22 agosto, è il fatto di aver aumentato le attività da fare. La normativa era molto confusa e il decreto ha il merito di averla coordinata con procedure chiare e con l’autocertificazione, però il fatto che serva sempre la caratterizzazione e il campionamento del terreno ha reso più pesanti le procedure stesse. Tra le quali quella per riutilizzare, nello stesso sito di produzione, le terre e rocce da scavo estratte è particolarmente difficile da applicare. Vediamo perchè.
Il Codice dell’Ambiente (Dlgs 152/2006, articolo 185, comma 1, lettera c) escludeva semplicemente il terreno non contaminato scavato e riusato nello stesso sito dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti, senza prevedere specifiche modalità di verifica della non contaminazione del terreno, lasciando discrezionalità nella valutazione della qualità del terreno. Insomma, il Codice dell’Ambiente consentiva un confronto tra operatore e enti per determinare quando fosse opportuna un’ indagine e quando invece fosse sufficiente una valutazione della situazione generale.
Terre e rocce da scavo, come cambiano le cose
L’articolo 24 del Dpr 120/2017 integra la disciplina del Codice dell’Ambiente e all’allegato 4 impone che la non contaminazione sia verificata con la caratterizzazione (campionamento e analisi del terreno) del terreno scavato. La nuova norma prescrive sempre l’analisi, senza neanche fare differenze tra piccoli o grandi cantieri, appesantendo quindi una prassi consolidata da anni.
Se il riutilizzo nello stesso sito è previsto in un progetto sottoposto a VIA, l’operatore deve predisporre un piano preliminare di utilizzo che integra lo studio di impatto ambientale. Il piano dovrà essere integrato con i risultati del campionamento (da trasmettere agli enti prima dell’inizio dei lavori) e dovrà riportare:
1. volumi da scavare e riutilizzare,
2. collocazione e durata dei depositi,
3. collocazione finale delle terre e rocce da scavo.